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La Nuova Sardegna 18 settembre 2016: “Nako”, l’accoglienza diventa un docufilm

18 settembre 2016

“Nako”, l’accoglienza diventa un docufilm
Il progetto curato dall’associazione “4 cani per strada”
di Grazia Brundu

SASSARI. La prima sensazione che si prova guardando “Nako – La terra” è quella di un tempo sospeso. Ettari di campagna che si perdono all’orizzonte, querce secolari, rocce e tutt’intorno mucche, pecore, asini al pascolo in un silenzio verde. Facile riconoscere l’ambientazione sarda, barbaricina, e infatti sono i terreni che circondano l’agriturismo «Donnedda» a Sarule. Il senso di sospensione, però, è dato dalle presenze umane: un gruppo di migranti che in quell’agriturismo, adibito a centro di accoglienza, hanno trovato una terra di mezzo. Un limbo. Un non-tempo e un non-luogo a metà strada tra l’Africa e le famiglie che hanno lasciato e il futuro che sarà autorizzato ad arrivare solo dopo il permesso di soggiorno.

Parla proprio di questo il cortometraggio presentato ieri in anteprima a Sassari durante il festival Girovagando, quest’anno dedicato alle convivenze indagate in una prospettiva multiculturale e multietnica. «Nako» – che nella lingua mandinka dell’Africa occidentale significa campo, orto, terra da coltivare – è nato all’interno del progetto «Nuovi linguaggi e pratiche audiovisive nella Sardegna contemporanea: il video partecipativo e la ricerca di un antropologia condivisa». Un progetto, da pochi giorni anche online (www.videopartecipativosardegna.net), portato avanti dallo scorso marzo dall’associazione culturale 4Caniperstrada, con il co-finanziamento della Regione Sardegna e la collaborazione dell’Archivio Memorie Migranti e del collettivo di documentaristi Zalab. Fanno parte dello stesso programma altri due documentari che saranno presentati a ottobre. Realizzati con gli studenti della IVG del Liceo magistrale di Sassari e con un gruppo di giovani della Porto Torres post-Petrolchimico.

Ad accomunare i tre lavori, riuniti in un dvd dove le immagini sono sottolineate dalla chitarra di Paolo Angeli, è il fatto che le storie raccontate non nascono per volontà di un regista unico ma dalle scelte consapevoli di tre piccole comunità marginali. Secondo il metodo conosciuto come «cinema partecipativo», elaborato in America alla fine degli Anni Sessanta e non troppo diverso, almeno nelle scelte etiche, dai lavori neorealisti di Cesare Zavattini. Un approccio che attribuisce un’importanza fondamentale, oltre che ai soggetti, anche ai destinatari del film realizzato. Non un pubblico indifferenziato, come quello di una sala cinematografica o di un festival, ma spettatori che coincidono con gli abitanti del posto dove le immagini sono state girate.

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